55a Biennale di Venezia. When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013 alla Fondazione Prada

“Un esercizio di doppia occupazione”.

Così è connotata la (ri)proposizione della mostra universalmente riconosciuta come pietra miliare della storia dell’arte. Perché Live in Your Head. When Attitudes Become Form, allestita nella Kunsthalle di Berna dal compianto Harald Szeemann nel 1969, è “LA” mostra, quella che ha segnato il passo, che ha celebrato nuovi linguaggi e introdotto inediti modi di intendere l’arte.

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Si parla di “doppia occupazione” poiché come la Kunsthalle fu occupata dalle opere di una nuova generazione di artisti rivoluzionari, così gli ambienti del palazzo veneziano Ca’ Corner della Regina sono occupati dalla ricostruzione delle sale della Kunsthalle. Operazione voluta dalla Fondazione Prada e curata da Germano Celant (che nel suo testo di catalogo opportunamente ha voluto anteporre al titolo originale la dicitura A readymade), in stretto dialogo con Thomas Demand e Rem Koolhass.

Gli stessi organizzatori si sono interrogati sulla validità e l’opportunità di proporre oggi una mostra vecchia più di quarant’anni; dubbi superati dalla volontà di offrire l’occasione di mostrare dal vero – dal vivo – quelle opere e il pensiero che le ha raggruppate e coglierne appieno il dialogo, la forza prorompente e l’atmosfera. L’architettura di Ca’ Corner come perimetro riesce ad accogliere in scala 1:1 le stanze di Berna; ma la precipua suddivisione interna delle sale del palazzo storico ostacola, ovviamente, la visione completa in alcuni casi (per la presenza ad esempio di pilastri), in altri la libera fruizione (per le pareti divisorie originali del palazzo); è solo il terzo piano che, essendo un unico grande ambiente, consente una visione di ampio respiro e di grosso impatto emotivo e consente di cogliere appieno le opere. Dettagli questi che non riescono a indebolire la straordinarietà dell’insieme. Abituati all’interpretazione di una canzone o di un’opera teatrale, non lo siamo altrettanto per una mostra (eccezione per le mostre-pacchetto itineranti) soprattutto a una tale distanza temporale.

Ma probabilmente sia la novità, che l’importanza storica di questa mostra, nei giorni della vernice della Biennale di pubblico ne ha attirato parecchio. Ciò ha creato l’immancabile coda chilometrica all’ingresso (il leitmotiv delle ultime edizioni della rassegna veneziana) accresciuta anche dalla zoppicante organizzazione della Fondazione, che verosimilmente sta ancora rodando la gestione del flusso dei visitatori (corre l’obbligo, infatti, di far presente che all’interno della mostra possono essere accolte solo duecento persone, suddivise in gruppi di massimo dieci/tredici, che il personale accompagna nelle diverse sale, fornendo delle nozioni generali e coordinandone il percorso) disorientato anche dall’arbitraria collocazione delle didascalie. E la mostra sembra fare da contraltare (se non addirittura da completamento) al gioniano Palazzo Enciclopedico (titolo della mostra internazionale curata per l’appunto da Massimiliano Gioni per la 55.Biennale di Venezia).

Sebbene possa apparire chiaro il motivo per cui Celant e la Fondazione Prada abbiano voluto riproporre questa mostra, ci si interroga anche sul perché, nonostante appartenenti a generazioni differenti, sia Gioni che Celant, abbiano volto il loro sguardo al passato. Sintomo questo non nuovo, perché nei momenti di grande confusione e in epoche di transizione, si è sempre andati alla ricerca della tradizione per trovare indicazioni e lumi per il futuro. Comunque, da parte di Celant c’è stato non solo lo sforzo di ricomporre la mostra del ’69 ma anche di rendere nuovamente reali quelle opere in quegli spazi che molti, forse moltissimi, hanno visto solo attraverso le riproduzioni fotografiche (più di mille sono gli scatti che la documentano, tra cui anche quelli di Claudio Abate) e filmiche, ora sparse in musei e collezioni private. Ed è proprio per vedere di nuovo riuniti dal vivo quasi tutti i lavori (alcuni non sono stati prestati, altri non sono più esistenti, mentre altri ancora sono stati reenacted direttamente o in collaborazione con gli artisti stessi o con le rispettive fondazioni), si vogliono per l’appunto (ri)attivare attuali letture dell’intera mostra, rendendola in qualche modo (un’altra volta) contingente.

Così, attraverso la stretta collaborazione col Getty Research Institute di Los Angeles, che custodisce l’archivio e la biblioteca di Szeemann, le testimonianze dirette degli artisti che vi parteciparono, i documenti della Kunsthalle, è stato possibile ricostruire fedelmente quanto accadde a Berna e nella sede distaccata della Schulwarte. Laddove le opere non sono state recuperate, è stata comunque tenuta presente la loro originaria collocazione, segnando con linee tratteggiate le rispettive dimensioni accompagnate dalla relativa immagine.

Camminando tra quei lavori, ancora e di nuovo, si percepisce la forte personalità di Szeemann e l’importanza della mostra, perché è evidente come egli sia stato capace di procedere svincolato dalle etichette del suo tempo, riuscendo in questo modo a individuare la fluidità di ricerca dell’arte, dei materiali e dello stesso approccio all’arte lasciando libera espressione al processo catartico dell’arte.

Ecco, allora, riuniti insieme molti degli artisti che hanno profondamente segnato la storia dell’arte a livello internazionale e che li ha visti poi partecipare a diverse manifestazioni importanti (come Documenta 5 del 1972, diretta dallo stesso Szeemann e la prima a non essere più curata da Arnold Bode). Artisti che in seguito hanno poi completamente stravolto la loro ricerca (ad esempio Bruce Nauman, presente in mostra con Neon Templates of the Left Half on My Bodi Taken at Ten Inch Intervals e Plaster Cast Based on Neon Templates) oppure già instradati (come ad esempio Gilberto Zorio, Carl Andre, Pier Paolo Calzolari). Di altri è invece affascinante osservare gli anticipi di quelli che saranno poi dei discorsi lucidi e chiari (come i primi emozionanti igloo di Mario Merz), offrendo anche una sorta di omaggio alla grandezza nonostante la prematura scomparsa, come nel caso di Pino Pascali (Confluenze). Si vedono inaspettatamente i noti sacchi di Kounellis, le Ghise di Boetti, la margarina di Beuys, le torsioni di Anselmo, il ghiaccio di Calzolari, le reazioni termodinamiche di Zorio, le mattonelle di Andre, il telefono di De Maria, la corda di Flanagan, il tessuto di lattice di Eva Hesse, i feltri di Morris, la cenere di Ruthenbeck, i piombi di Serra: alcuni dei sessanta artisti in mostra con centro quarantotto lavori.

Info mostra

  • When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013
  • Fondazione Prada, Ca’ Corner della Regina
  • Calle de Ca’ Corner, Santa Croce 2215 – 30135 Venezia
  • 1 giugno – 3 novembre 2013
  • Orari: 10.00 – 18.00 (chiuso il martedì)
  • Biglietti: intero € 10,00; ridotto € 8,00
  • Info: t. +39 041 8109161; info@fondazioneprada.org; www.fondazioneprada.org
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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